Porta aperta sul cuore


Come la ricerca e i fondi di investimento influenzano la sicurezza dei dispositivi medici interconnessilogo-claim-2015-3c-highres

Sebbene il titolo abbia un che di romantico, il contesto è davvero inquietante: da un recente comunicato dell’agenzia americana per il controllo di alimenti e farmaci (FDA) una specifica linea di pacemaker risulta presentare vulnerabilità che li rendono accessibili a distanza. Il produttore ha rilasciato un aggiornamento del firmware che dovrebbe chiudere tale falla.

La connettività dei dispositivi medici presenta indubbiamente una serie di indiscutibili vantaggi sia per i pazienti sia per il personale medico e paramedico. Anziché presentarsi personalmente presso lo studio medico, cosa che, a dipendenza della gravità della malattia è già di per sé una sfida, i pazienti possono sottoporsi a controlli di routine da remoto, senza dover metter piede fuori dalla propria abitazione. Il monitoraggio a distanza di particolari parametri vitali corrisponde per tutti i soggetti interessati ad un enorme risparmio di tempo e risorse, in grado di entusiasmare i più, se solo non vi fossero i moniti dei ricercatori sulle potenziali minacce costituite da sistemi violabili.

Un esempio interessante è il recente caso del produttore leader di pacemaker, la St. Jude Medical: una ricerca condotta da MedSec e Muddy Waters Capital ha evidenziato che il trasmettitore radio collegato a Internet per il monitoraggio in remoto dei valori cardiaci e del funzionamento del dispositivo impiantato era potenzialmente accessibile a terzi che avrebbero potuto riconfigurarlo cagionando un più rapido esaurimento della batteria, un forte disagio fisiologico al paziente e una compromissione dell’effettiva funzionalità del dispositivo in caso di necessità. L’unico requisito per procurarsi accesso al dispositivo impiantato era la vicinanza del paziente all’apparecchio per la trasmissione dei dati.

Questo è solo uno dei numerosi casi segnalati dal 2015 ad oggi in cui si riscontra un livello di sicurezza lontano anni luce dagli attuali standard. Uno dei motivi è che il processo di certificazione dei dispositivi medici, dalle pompe di insulina ai sistemi per la narcosi in sala operatoria, fino ai dispositivi per l’erogazione intravenosa automatica di medicinali, richiede anni, oltre ad un enorme investimento da parte dei produttori. Nel caso di dispositivi il cui malfunzionamento pregiudica l’incolumità dei pazienti, i requisiti sono estremamente complessi e talmente limitanti da rendere impossibile qualsiasi aggiornamento, anche nel caso di patch necessarie per chiudere eventuali falle: qualsiasi modifica richiederebbe una nuova certificazione.

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E se un giorno..

Se pensiamo al fenomeno dei ransomware, ci vuole ben poco per ipotizzare che dei malintenzionati possano un giorno estorcere denaro ai pazienti, ospedali o studi medici minacciando di disattivare i sistemi di supporto vitale in caso di

mancato pagamento del riscatto. Per affrontare questa sfida non vi sono alternative alla stretta collaborazione tra ricercatori e produttori, una collaborazione che non dovrebbe essere limitata ai soli dispositivi ma estesa anche alle piattaforme online cui molti di questi sono oggi collegati. Le ricerche degli ultimi anni hanno evidenziato quanto si sia lontani da un’integrazione della sicurezza sin dalle prime fasi della produzione. Va da sé che anche il processo di certificazione dovrebbe essere accelerato. Lo sviluppo nell’ambito della sicurezza IT ha raggiunto un grado di evoluzione notevole, procedure prolungate rappresentano un chiaro ostacolo al progresso e alla tutela efficace dei fruitori di questi dispositivi.

Vulnerabilità che arrichiscono gli insider

Il caso della St. Jude Medical conferma quanto sia essenziale il ruolo della sicurezza informatica nello sviluppo di tali apparecchi. La posta in gioco per gli attori è molto alta: la reputazione di un produttore può subire ingenti danni se la sicurezza dei propri dispositivi è compromessa. Gli interessi finanziari viaggiano di pari passo: danni alla reputazione di un produttore avranno un riscontro diretto sulla redditività delle sue azioni. La St. Jude Medical stava per essere acquisita dalla Abbot Laboratories per 25 miliardi di dollari proprio al momento della pubblicazione dei risultati dell’analisi sulle vulnerabilità dei dispositivi ad opera di MedSec e Muddy Waters Capital. Entrambe hanno attuato vendite allo scoperto e acquisti a termine antecedenti alla pubblicazione dei risultati della ricerca, anticipando le eventuali cadute del valore azionario dovute alla pubblicazione. La St. Jude Medical ha presentato una denuncia formale contro entrambe le aziende, il processo è in corso.

Questo caso lascia adito a scenari di stretta collaborazione tra esperti di alta finanza e ricercatori nel settore della sicurezza IT. Insieme possono sfruttare le proprie conoscenze da insider realizzando enormi profitti attraverso operazioni di borsa preventive alla pubblicazione dei risultati delle ricerche. Ovviamente i produttori hanno tutto l’interesse a prevenire questa evenienza migliorando efficacemente la sicurezza dei loro prodotti. Dall’altro lato però ci troviamo di fronte ad un dilemma etico di dimensioni epocali: si genera volutamente un profitto sulla base di conoscenze e informazioni che non solo possono mettere in pericolo la vita dei pazienti ma che, come in questo caso, non vengono neanche fornite ai produttori. I cosidetti “Bug Bounties” sono una vera manna per i ricercatori di sicurezza informatica che segnalano al produttore eventuali falle di sicurezza consentendo loro di porvi rimedio prima della pubblicazione della ricerca. A seconda della gravità di una determinata vulnerabilità un Bug Report può assicurare al ricercatore introiti a sei cifre. Se fosse dimostrato che l’approccio seguito da MedSec e Muddy Waters Capital frutti guadagni ancora maggiori (la sentenza non è stata ancora emessa), ciò potrebbe influenzare il modo in cui i ricercatori utilizzano le conoscenze che acquisiscono.

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Attacchi contro le grandi aziende: tutto il giorno, tutti i giorni


logo-claim-2015-3c-highresCome riportato da diversi media durante lo scorso fine settimana, il gruppo industriale ThyssenKrupp è stato preso di mira dai cybercriminali. La società si dice vittima di un attacco hacker sapientemente progettato e sferrato già nel febbraio di quest’anno. Il dipartimento CERT (Cyber Emergency Response Team) interno ha scoperto però l’attacco solo nel mese di aprile. Gli aggressori avevano cercato di ottenere un punto di accesso permanente alla rete aziendale.

L’incidente conferma le stime dei G DATA Security Labs: qualora ben congeniato, un attacco mirato ad una rete può passare inosservato per oltre tre mesi dopo l’infiltrazione. Alla luce di tale valutazione, il reparto di sicurezza della ThyssenKrupp è stato relativamente veloce nel rilevare l’attacco. Esempi passati mostrano tuttavia che, in determinate circostanze, attacchi molto complessi e progettati per colpire un obiettivo specifico o per condurre campagne di spionaggio mirate possono rimanere celati addirittura per diversi anni. Un esempio di questo tipo è Uroburos.

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Anatomia di un attacco mirato

Un attacco mirato di solito segue un certo schema. Dapprima gli aggressori raccolgono informazioni sul loro obiettivo. In base alle informazioni raccolte formulano una strategia per accedere alla rete, che contempla diverse metodologie, da malware prodotto ad hoc all’ingegneria sociale. Una volta ottenuto l’accesso, i criminali cercano di estendere la portata dell’attacco incrementando il numero di sistemi alla propria mercè. Identificati i dati di proprio interesse, gli aggressori passano alla fase estrattiva ossia al vero e proprio furto di dati e segreti aziendali.

Non ci è dato conoscere al momento il livello di sofisticazione dell’applicazione back-door impiegata presso ThyssenKrupp. Va sottolineato, tuttavia, che non tutti gli strumenti per lo spionaggio sono costituiti da componenti sviluppate ad hoc. I criminali si avvalgono spesso di strumenti già esistenti per risparmiare in un certo qual modo sui costi di realizzazione dell’attacco. Secondo quanto divulgato dalla stessa ThyssenKrupp, quanto finora rilevato suggerisce l’area asiatica come origine geografica dell’attacco.

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Le grandi aziende non sono l’unico obiettivo

Una statistica prodotta da GE Capital indica che circa il 44% dei brevetti europei registrati sono di proprietà di aziende tedesche di medie dimensioni. Non meraviglia quindi che anche queste società rappresentino obiettivi appetibili per i cybercriminali. Secondo l’Ufficio federale tedesco per la Sicurezza Informatica (BSI), il 58% delle aziende pubbliche e private sul territorio teutonico ha già subito attacchi contro i rispettivi sistemi IT e di comunicazione. In Italia la percentuale di aziende colpite da attacchi mirati cresce di due cifre anno su anno, un incremento forse favorito dall’ingente numero di macchine zombie presenti sul nostro territorio, di cui i cybercriminali possono servirsi indisturbati per sferrare i propri attacchi.

Uno sguardo al passato: Uroburos – software di spionaggio di origini russe

Nel 2014, gli esperti di sicurezza di G DATA avevano rilevato e analizzato un malware altamente sofisticato e complesso, progettato per rubare dati provenienti da reti di alto profilo come quelle di agenzie governative, servizi informativi e grandi aziende. Il rootkit denominato Uroburos lavora in autonomia e si propaga nella rete colpita senza richiedere un ulteriore intervento da parte dei criminali, in questo modo è persino riuscito ad infettare macchine prive di connessione Internet. G DATA è giunta alla conclusione che un malware di questo livello possa essere realizzato esclusivamente con forti investimenti infrastrutturali e in personale altamente specializzato. Il design ed il livello di complessità di questo malware fanno supporre che lo stesso abbia avuto origine dal settore dell’intelligence. L’analisi rivelò inoltre che Uroburos avesse radici russe. Fino all’identificazione da parte dei G DATA Security Labs questo malware complesso era restato celato nella rete.

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Cambio gomme invernale: Oltre la metà degli italiani non lo farà


Logo_123ReifenDue sono le domande dell’indagine condotta a fine settembre dallo specialista degli pneumatici 123gomme.it su un campione rappresentativo di 1001 intervistati. Interessanti i risultati, che vedono in netta pole position le gomme “quattro stagioni” e un’importante quota di preferenze per il “fai da te” tra chi le cambia.

Come affronti il cambio gomme in generale e, nello specifico, come ti comporterai in occasione del passaggio agli pneumatici invernali? Queste le due domande a risposta unica contenute nel sondaggio condotto nelle ultime due settimane di settembre dall’istituto di ricerca indipendente Norstat, commissionato da 123gomme.it allo scopo di valutare le abitudini degli italiani che si occupano in prima persona della manutenzione della propria vettura, tra cui figura una sorprendente quota rosa del 29%.

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Il quadro emerso risulta eterogeneo, i risultati in alcuni casi sconcertanti: il 18% degli italiani, di cui quasi il 30% laureati e il 13% di chi, tra gli intervistati, risiede al Nord, ritiene ad esempio che nella maggior parte delle regioni della penisola non occorra passare alle gomme invernali, pertanto non effettuerà il cambio gomme. A questo 18% si aggiunge chi ha optato per le gomme quattro stagioni in precedenza, ossia il 33% degli intervistati. Il 49% invece passerà alle gomme invernali. Tra questi, il 13% ha dichiarato di dover acquistare nuovi pneumatici invernali e il 40% che lo fa perché preferisce evitare problemi con l’assicurazione o la polizia.

In generale il “cambio gomme”, indipendentemente dal periodo dell’anno, è gestito in modo quasi compatto attraverso l’officina di fiducia, meta preferita dall’82% degli intervistati, di cui però il 20% acquista gli pneumatici online e li immagazzina autonomamente. Il restante 18% degli intervistati, di cui uno su tre ricopre ruoli dirigenziali, le monta da solo. Sorprendente anche il fatto che il 57% di chi preferisce il “fai da te”, acquista gli pneumatici in officina!

Per quanto riguarda l’acquisto, il 18% degli intervistati preferisce avvalersi di piattaforme online. Di questi, la stragrande maggioranza (88%) si reca in officina per il montaggio, dove viene reimpostata anche la convergenza.

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